Francesco Jori “La sofferenza e la morte”

Anche all’interno dell’Opera della Provvidenza S. Antonio è stato costituito, con Deliberazione del Consiglio di Amministrazione del 2 novembre 2019, il Comitato Etico per la Cura e la Buona Assistenza della Persona.

É un organismo indipendente, costituito da personale sanitario e non sanitario e rappresenta uno spazio di riflessione etica, autonoma e interdisciplinare, per promuovere la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e la volontarietà dei trattamenti sanitari nei limiti imposti dal rispetto della persona e della sua valorizzazione.

Il Comitato è composto da sedici componenti (per due terzi membri esterni, cioè non dipendenti dell’Opera), designati con propria deliberazione dal Consiglio di Amministrazione dell’Opera. I membri rappresentano i diversi ambiti disciplinari e vengono scelti tenendo in considerazione la loro competenza e la loro esperienza in ambito clinico, sociale, amministrativo, assistenziale, del volontariato e del campo della bioetica.

È stato eletto come Presidente Mons. Renzo Pegoraro, presbitero diocesano, direttore scientifico della Fondazione Lanza, Cancelliere della Pontificia Accademia per la vita.

Nella seduta del 4 dicembre 2020, il Comitato ha esaminato e approvato all’unanimità un documento /riflessione di un suo componente, il dott. Francesco Jori, editorialista di quotidiani locali, sui temi della sofferenza e della morte, che riportiamo qui di seguito.

 

Riflessioni alla luce dei valori che ispirano l’Opera della Provvidenza S. Antonio (Opsa)

 I nomi hanno un loro significato profondo. L’Opera della Provvidenza, alla sua nascita, sceglie di chiamarsi in questo modo sulla base di tre motivazioni di fondo: 1) è la Provvidenza che la invita a questo compito, ascoltando le sofferenze e difficoltà dei disabili e delle loro famiglie; 2) la Casa diventa a sua volta Provvidenza per le persone accolte e per le loro famiglie, impossibilitate a garantire una adeguata assistenza a domicilio; 3) la Casa vive di quella Provvidenza che si concretizza nelle offerte dei benefattori, nei tanti amici che donano tempo e risorse di ogni tipo, nel personale laico e religioso che offre la propria professionalità e disponibilità, diventando così strumento di carità e condivisione.

Sessant’anni dopo, queste motivazioni di base non solo rimangono attuali, ma vengono semmai ulteriormente potenziate da una serie di processi sociali in atto: l’allargarsi delle situazioni di squilibrio individuali e collettive, l’emergere di nuovi bisogni e di nuove povertà non solo materiali a cominciare dalla solitudine, la perdurante crisi della struttura familiare tradizionale, l’insorgere di nuove patologie, l’invecchiamento della popolazione con il parallelo manifestarsi di cronicità diverse, non ultima l’attuale pandemia legata a Covid-19 ma destinata sicuramente a ripresentarsi in futuro sia pure con manifestazioni diverse ma comunque simili nell’indotto sanitario, economico e sociale.

  

Il nuovo stigma della disabilità

 A fronte di tutto questo, è necessario far fronte a una deriva culturale più complessiva in atto da tempo, che presenta specifiche ricadute anche su quel mondo della disabilità che costituisce l’ambito in cui l’Opsa interviene. In particolare, si è venuta consolidando una tendenza a negare la morte e la stessa sofferenza, rimuovendole dall’orizzonte quotidiano dei singoli e della collettività, e narcotizzando le coscienze, con effetti destinati ad appesantirsi nel lungo periodo: se una volta i bambini credevano di essere portati dalla cicogna e non sapevano come si nasce ma imparavano a vivere la realtà del dolore e della morte in casa, oggi succede esattamente il contrario. Si muore al buio, spesso in disperante solitudine, come le vicende di Covid 19 hanno drammaticamente evidenziato.

Occorre anche rilevare la deriva culturale in atto nei confronti della disabilità, che tende a considerarla come una versione moderna e rivisitata dello stigma dell’antichità, quando i difetti del corpo o della mente venivano bollati come una sorta di stigma divino contri chissà quale colpa. Oggi, da un lato la questione viene subordinata a considerazioni meramente economiche o utilitaristiche, come ben documenta l’ampio saggio di Matteo Schianchi, “Dal castigo degli dei alla crisi del welfare”[1]; dall’altro paga dazio al nuovo culto del corpo e della fisicità, ispirato ad astratti parametri di bellezza, e a una sorta di religione laica dell’efficienza, che considera solo chi è utile e tende a rimuovere tutto il resto. Lo ribadisce con grande efficacia papa Francesco nella sua enciclica “Fratelli tutti”, in cui denuncia che “oggetto di scarto sono diventati gli stessi esseri umani”, ed esorta a: “scoprire che tutti sono importanti, che tutti sono necessari, che sono volti differenti della stessa umanità amata da Dio”.

  

Il presunto “diritto alla guarigione”

 Questo scenario ha ed avrà ricadute negative di lungo periodo. L’esasperazione del senso di onnipotenza agevolato tra l’altro dagli sviluppi della ricerca e della tecnologia sta comportando una sorta di convinzione che non soffrire, o comunque guarire, sia un diritto acquisito, e che la logica perversa del “prima io” si estenda anche alla salute, fino ad esasperazioni paradossali del genere “il mio raffreddore è più importante del tuo tumore”. Prevalgono logiche di efficienza e di utilitarismo che misurano gli interventi clinici in termini di risultato e di guarigione forzata; le statistiche delle prestazioni sono più importanti dei loro contenuti e delle loro modalità. E tutto questo finisce tra l’altro per complicare e appesantire il compito degli operatori del settore, dai medici agli infermieri agli psicologi al personale sanitario in genere, chiamati non di rado a dover far fronte a pesanti pressioni dei pazienti e dei familiari, se non a vere e proprie aggressioni fisiche, comunque alimentando devastanti polemiche.

In un simile contesto, il ruolo e l’esistenza stessa di Opsa possono rappresentare un messaggio e una testimonianza di grande significato, e come tale vanno riproposti anche attraverso iniziative specifiche che valgano a farne conoscere la presenza e l’attività; e in tal senso Covid 19 può paradossalmente costituire un’opportunità proprio ribadendone i valori di fondo. Occorre tenere presente a questo riguardo che l’incidenza della pandemia in atto non si riversa solo sul piano strettamente sanitario, ma va ad incidere su aspetti quali il decadimento cognitivo, l’abbandono, la solitudine: ambiti che chiamano direttamente in causa quell’azione di accoglienza, vicinanza, cure, relazioni che rappresenta il filone portante dell’azione di Opsa. A tale riguardo va richiamata la recente lettera “Samaritanus bonus”, della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, in cui si sottolinea che “è difficile riconoscere il profondo valore della vita umana quando, nonostante ogni sforzo assistenziale, essa continua ad apparirci nella sua debolezza e fragilità”. Forte è anche la denuncia di quell’individualismo che comporta una pesante deriva verso la solitudine, e che sfocia in un concetto di bene che “si riduce ad essere il risultato di un accordo sociale: ciascuno riceve le cure e l’assistenza che l’autonomia o l’utile sociale ed economico rendono possibili o convenienti. Ne deriva così un impoverimento delle relazioni interpersonali, che divengono fragili, prive di carità soprannaturale, di quella solidarietà umana e di quel supporto sociale così necessari ad affrontare i momenti e le decisioni più difficili dell’esistenza”.

 

 L’impegno del Comitato etico dell’Opsa

 Alla luce di tutto questo, e anche raccogliendo una precisa sollecitazione della “Samaritanus Bonus” (“il ruolo dell’educazione è ineludibile; la famiglia, la scuola, le altre istituzioni educative e le comunità parrocchiali devono lavorare con perseveranza per il risveglio e l’affinamento di quella sensibilità verso il prossimo e la sua sofferenza, di cui è diventata simbolo la figura del Samaritano evangelico”), anche il Comitato etico dell’Opsa può mettere a fuoco un proprio contributo attivo. A titolo di proposta, il filone conduttore delle azioni da intraprendere può essere quello di ribadire la sostanziale profonda differenza tra guarigione e cura nell’operato stesso di Opsa, che passa attraverso la scelta non di cancellare il dolore e la morte ma di umanizzarli. Come spiega con esemplare chiarezza Enzo Bianchi, occorre “prestare tutta l’attenzione per curare e accompagnare, anche quando l’obiettivo di guarire è irraggiungibile”; e questo “in considerazione della dignità della persona e del suo valore irripetibile, e perché mai vi sia la tentazione di abbandonare a se stesso un essere umano giudicato inguaribile… nella condivisione di una fragilità umana e di una precarietà esistenziale che nasce dalla consapevolezza sempre comune, mai solo individuale, che la vita ha un termine, che la condizione umana porta con sé dei limiti e che ciò che salva una vita sono gli affetti vissuti”. (cfr. l’articolo su “Repubblica” del 19.10.2020).

I sessant’anni di Opsa possono in tal senso rappresentare un’occasione, di cui il comitato etico per sua stessa natura potrebbe farsi carico, per aprire un pubblico confronto su queste tematiche, magari anzi auspicabilmente in raccordo con altri comitati etici per la pratica clinico-assistenziale esistenti nel territorio padovano e regionale.

 

Sarmeola di Rubano, 26.10.2020

 

[1] Matteo Schianchi, Storia della disabilità, dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Roma, Edizione Carocci, 2012.