EDITORIALE
Un proverbio veneto dice che “parchè ‘na pandemia passa, ghe voe un Nadae e do Pasque”, “perché una pandemia si estingua, devono passare un Natale e due Pasque”: e speriamo che il sentire popolare, fondato sull’esperienza della peste di Venezia del ‘500, possa essere di buon auspicio. Comunque abbiamo dovuto “accettare” che anche queste festività pasquali siano state fortemente caratterizzate dalle limitazioni dovute al Covid-19.
E si nota che anche tra le persone più tranquille oramai serpeggia una certa insofferenza per lo stato delle cose. Purtroppo noi uomini e donne del terzo millennio abbiamo pazienze psicofisiche davvero brevi, tarate sui tempi dei social. I tempi lunghi non fanno più parte del patrimonio mentale dell’uomo occidentale. Ci sembra impossibile essere ancora alle prese con un problema (per quanto grave) di oltre un anno fa; ci sembra impossibile che l’Uomo moderno, capace di arrivare con i razzi fino su Marte, non sia in grado di sconfiggere in poco tempo un virus. Eppure è così e quindi questa situazione aumenta l’insofferenza, il nervosismo, l’aggressività in molti.
Anche qui all’Opera della Provvidenza la pandemia costringe ancora a protocolli che limitano le attività comuni. È inutile negarlo, si sperava in una Pasqua un po’ più libera da vincoli, nella possibilità di incontro con i familiari, ma non è stato possibile. Certo, la moderna tecnologia supplisce, la videochiamata è un surrogato al quale i nostri ospiti sono divenuti avvezzi, ma il calore di un abbraccio è insostituibile: eppure è bello vedere gli ospiti gioire e ringraziare di questa alternativa! I laboratori educativi, le passeggiate nel parco, le attività ludiche sono ancora normati dalla cautela sanitaria, ma agli ospiti per essere sereni basta quel poco che si riesce con tenacia a proporre loro. Beati loro, vien da dire, beati loro che gioiscono di ciò che hanno e riescono a insegnarci qualcosa di importante anche, o soprattutto, in questo momento di difficoltà: l’umiltà di farsi aiutare, l’umiltà di affidarsi alle attenzioni, alla sensibilità, alla delicatezza di altri nostri fratelli più giovani e, di chi si prende cura di noi, come ha ricordato il vescovo mons. Claudio Cipolla durante l’omelia del Giovedì Santo nella nostra chiesa.
Gli ospiti sono una continua scuola di carità, sono una risorsa preziosa per coloro che hanno la fortuna di incrociarli, di venire in contatto con loro. Oggi purtroppo il Covid non ci consente questo scambio nel pieno delle potenzialità. E questo è senz’altro un danno che la pandemia ha provocato: la momentanea impossibilità per volontari e visitatori, parrocchie e gruppi di venire all’Opera della Provvidenza e di frequentare la scuola di carità, non poter interagire con i nostri ospiti. Ma non ci arrendiamo: confidiamo di tornare presto a godere della loro serenità e umiltà e poter portare a casa qualche dubbio in più che incrini le nostre granitiche certezze di chi crede di potercela fare sempre da solo. Siamo tutti sulla stessa barca, ricorda papa Francesco, chiamati a vivere come fratelli.